Satoshi Kon e David Lynch sono due registi più volte accostati per la somiglianza della loro poetica. Il rapporto tra finzione e realtà, la dimensione onirica dei loro lavori e il continuo disorientamento dello spettatore a cui non si offrono che dubbi e smentite delle loro aspettative, sono tutte caratteristiche comuni a entrambi. Un altro dettaglio affascinante è che nella filmografia di entrambi, così estremamente schierata contro uno stile realista, c’è un film che contraddice totalmente la poetica di tutti gli altri e che invece rappresenta un ritorno alla realtà: Tokyo Godfathers per Kon e The Straight Story per Lynch, dal titolo abbastanza esplicativo.
Quello che mi interessa analizzare oggi è il modo in cui Kon e Lynch realizzino cinematograficamente la dimensione onirica. Ovviamente la risposta principale a questa domanda è che l’effetto di disorientamento che producono i loro film è principalmente dovuto all’uso del montaggio. Nel cinema il mezzo per esprime i rapporti di causalità è il montaggio, quindi il mondo più diretto e pulito per trasmettere la discontinuità spazio temporale tipica della dimensione onirica, è sovvertire i rapporti normali di montaggio di un film. E bè, basta guardare i primi cinque minuti di Paprika per rendersi conto della maestria assoluta di Kon in questo ambito, o le leggendarie transizioni di Lost Highways di Lynch, o quelle della parte centrale di Mulholland Drive (quella per intenderci, che finisce con la telecamera che entra nel cubo blu).
Tuttavia, c’è un altro modo, che non ha a che fare con il montaggio, in cui i due registi rappresentano l’infiltrazione dei sogni nella realtà: le luci.
Di primo acchito, mi hanno sempre infastidito le scene in cui rimango abbagliato per le luci particolarmente intense che vengono mostrate a schermo, soprattutto perché amo vedere i film immerso nell’oscurità, e le luci sono tanto più fastidiose quanto più è fitto il buio della stanza. Eppure, abbagliare lo spettatore, proprio perché risulta fastidioso, deve avere un senso particolare soprattutto perché viene usato così raramente dagli autori. L’uso dell’abbaglio è utile quando si deve passare da un una scena a un’altra, ma di solito il suo utilizzo segna o l’inizio o la fine di una scena, di solito di natura onirica, o di un flashback o di una premonizione.
Poiché viene spesso usata dai registi come una marca specifica per indicare un momento particolare nella narrazione, l’uso dell’abbaglio è di natura extradiegetica. La particolarità di Kon e di Lynch è che spesso riescono a utilizzare l’abbaglio in maniera diegetica, integrandolo perfettamente nella narrazione, senza che sia sentito come una marca didascalica che ci indica l’inizio di una scena chiave. Lynch e Kon usano le luci, in particolare, per simboleggiare l’ossessione. È una mossa geniale: invece di cadere nel cliché tipico del film thriller-horror in cui l’ossessione e i motivi che la fanno nascere sono associati all’oscurità e al mistero, questi due registi, associano l’ossessione non al mistero che la nutre ma alla chiarezza a cui ambisce. Vediamo come le luci possano diventare uno strumento del terrore psicologico. 1
Mi riferisco principalmente all’uso che di questo espediente si fa in Mulholland Drive e in Perfect Blue. Non è un caso che citi insieme questi due film, visto che hanno parecchi punti di contatto: entrambi raccontano la storia di un personaggio femminile tormentato, che ha delle ambizioni nel mondo dello spettacolo, che è insoddisfatto e tende a proiettare i suoi desideri in una realtà che non li rispecchia. La scelta di ambientare le loro storie nel mondo dello spettacolo sarà proprio ciò che permetterà ai due registi di usare le luci in modo diegetico. L’ossessione e il tormento di un’ambizione di successo, è resa perfettamente dall’esasperazione di un occasione molto comune nel mondo dello spettacolo e che ne rappresenta in realtà una perifrasi: essere sotto i riflettori. Il sogno di entrambe le protagoniste dei due film è questo.
Entrambi i film si aprono con scene simili, scene in cui la protagonista è sotto gli occhi di tutti, appunto, sotto i riflettori, bombardata di luci di fotografi e di acclamazioni del pubblico. Un immaginario simile possiamo trovarlo anche in Black Swan di Aronofsky, grande debitore della poetica di Kon. Tuttavia, invece di essere percepite dallo spettatore come scene di sollievo, acclamazione e realizzazione, quelle con le luci, sono di solito scene inquietanti, tutt’altro che luminose dal punto di vista concettuale, anzi, sono scene quasi orrorifiche e sgradevoli. Penso ad esempio alla sequenza in cui Mima (Perfect Blue) fa uno shooting fotografico in cui deve posare in intimo o addirittura nuda, evidentemente in un momento in cui non si sente pronta a farlo.
Sempre in Perfect Blue, durante l’ultima parte del film, Mima si ritrova nel suo stato allucinatorio, davanti all’equipe acclamante alla fine delle riprese della serie che sta girando, ma questa scena lungi dall’essere il compimento del viaggio dell’eroe, ne rappresenta la sua negazione e sprofonda lo spettatore in uno stato di sgomento, perché sappiamo bene che quello che vediamo è frutto della fantasia allucinatoria di Mima. Lo stesso avviene con la scena finale di Mulholland Drive, film che si conclude come era iniziato, ma il cui inizio possiamo capire appunto solo alla fine in tutta la sua portata drammatica. Nella scena c’è la protagonista che viene applaudita dietro centinaia di luci.
É sempre affascinante vedere il modo in cui i vari autori usino la luce nelle loro opere, soprattutto nelle opere con una forte componente visiva come fumetti o film. Come ho detto nella scorsa puntata dedicata alle ombre di Miura, ci sono autori che ribaltano il topo classico che associa la purezza alla luce e il male all’oscurità. Come nel caso di Lynch e Kon, la luce diventa il mezzo dell’inquietudine e del disorientamento piuttosto che quello della ragione e della chiarificazione. Quando è troppo forte, ci acceca, piuttosto che indicare la via.