Il cinema parla per immagini. Questo pone all’autore di film un limite invalicabile: la superficialità. Il regista deve dire il massimo possibile con il minimo: uno sguardo, una nota, un colore, un movimento. Questo non significa che il cinema costringe a una impossibilità dell’analisi psicologica dei personaggi, o che è un medium che impedisce una profondità narrativa, ma il punto del cinema è che esse vengono raggiunte con tanta più intensità ed efficacia, quanto più si lavora sulle superfici, e dunque, sul suggerimento di una profondità piuttosto che sulla sua rivelazione. Essere messi difronte a una rivelazione, in un film, non significa altro che essere messi difronte a un’altra immagine, un’altra superficie, senza possibilità di scavare più a fondo e da questo bisogno frustrato che trae il suo fascino l’immagine sullo schermo, immutabile e muta di risposte definitive, eppure ricchissima di risposte provvisorie. Lo schermo continuerà a restituirci un mondo piatto, per quanto illusoriamente tridimensionale e proprio da questa asimmetria deriva lo spazio vuoto entro cui si inserisce lo spettatore, nella sua attività interpretativa. Fare del buon cinema significa prima di tutto capire il limite intrinseco che il cinema porta con sé, quello di non poter scendere sotto il quanto minimo dell’immagine, della superficie senza perdere con ciò anche la condizione necessaria a parlare di cinema.
Dato questo limite, il problema fondamentale che il regista deve affrontare, è come esprimere la profondità psicologica dei personaggi sulla scena. Ci sono due modi, entrambi indispensabili: la sceneggiatura e la recitazione. Ma in questo articolo voglio concentrarmi solo sulla seconda e sul modo in cui viene usata da un regista come Fellini.
La caratteristica più distintiva di Fellini è infatti, a parer mio, la sua abilità nel far parlare i corpi e soprattutto le facce dei suoi personaggi, portando all’estremo un concetto di mutismo cinematografico che si costringe a far emergere la profondità più con la recitazione che con il dialogo. Nella maggior parte della cinematografia di Fellini, la profondità del film è resa da elementi espressionistici più che da un razionalismo della sceneggiatura. Fellini vuole spesso rievocare un ricordo, un atmosfera, una coloritura, senza preoccuparsi della tenuta discorsiva delle sue scene che, soprattutto nelle sequenze di flashback e di rievocazione, sono molto povere di dialoghi. Amarcord è l’esempio più emblematico di questo concetto, in cui a parlare sono più i volti e i movimenti e le situazioni che le voci dei personaggi. Lo stesso avviene nelle sequenze di flashback ambientate nell’infanzia di Guido in 8 e 1/2, o nella maggior parte di Satyricon.
Così si spiega l’uso e la scelta dei volti che fa Fellini nei suoi, film, per cui si dice che Fellini andasse a Napoli per il casting delle comparse, perché lì trovava una varietà di volti e di espressioni uniche e rurali. Soprattutto tra le comparse o nei ruoli secondari, Fellini sceglie delle facce estremamente particolari, ricercando il gusto espressionistico dell’eccesso, della deformazione, della stramberia, in un modo che è apparentemente fine a sé stesso, un’idiosincrasia autoriale senza altra ragione che la possibilità del regista di decidere della sua opera nel modo più superficiale possibile. Eppure non è così. In effetti, Fellini non applica questa scelta a tutto il cast dei suoi film: i personaggi protagonisti sono sempre attori “normali”, o almeno non estremi. L’eccesso è riservato come ho detto ai personaggi secondari o alle comparse. Questo ci dà il primo indizio sul senso di questa scelta: Fellini vuole raffigurare uno sfondo vivido e pulsante di autenticità nei suoi film, e per farlo deve arricchire i suoi sfondi di dettagli e particolari, che realizza nella stramberia delle facce dei personaggi e delle comparse. Questa scelta è peraltro perfettamente integrata con i movimenti di macchina tipici di Fellini: carrellate laterali che fanno entrare nella scena molti personaggi, zoom in avanti e tagli direttamente sulle facce ferme e impassibili di personaggi che sembrano usciti da altre epoche, quasi sempre legati a un’idea di ruralità o di ancestralità totemica. I movimenti di macchina usati da Fellini pongono un’enfasi enorme sui volti, con primi piani enormi sulle facce, spesso mentre i personaggi inquadrati si esibiscono in qualche ballo popolare o nella recitazione di proverbi o di azioni legate a un’idea di ruralità o tribalismo, come ho già detto. Spesso vediamo la camera oscillare dopo aver fatto una carrellata per mostrare un ambiente nella sua interezza e cadere quasi sulla faccia del personaggio inquadrato. Molti esempi di questa tecnica sono visibili in Satyricon.
La scelta di utilizzare volti dai tratti estremamente marcati e corpi che rievocano un’immagine tentacolare e protuberante lontana dai canoni standard della corporeità moderni, dunque, è perfettamente giustificata nella misura in cui uno dei punti fondamentali della poetica di Fellini è la ricerca del senso degli imprinting dell’infanzia, o in generale del senso del passato. Le sequenze oniriche e le rievocazioni della memoria si fanno caricaturali, i volti si mostrificano ma non in modo spaventoso, quanto piuttosto in modo grottesco, come se Fellini volesse essere pietoso nei loro confronti. Pensate alle sequenze con la prostituta in 8 1/2, o la galleria di follie di Satyricon, tutte contraddistinte dalle espressioni di personaggi che sembrano rievocare quasi le maschere della commedia dell’arte italiana. In effetti le scene in cui Fellini usa facce particolarmente strane hanno un’impostazione fortemente teatrale. Nel cinema di Fellini memoria dell’individuo e memoria della terra fanno tutt’uno: andare indietro alla propria infanzia significa andare indietro nell’infanzia dell’umanità, alle statuette della fertilità paleolitiche.
L’atmosfera di tribalismo che evocano le facce felliniane sono perfettamente integrate ai temi dei tre film finora citati: il tribalismo e l’importanza totemica dei corpi esiste sia nella memoria dei personaggi, dove il passato e le figure dell’infanzia assumono un’importanza figurativa archetipica, che nella realtà rappresentata da Fellini. Nel Satyricon è il tribalismo del mondo allucinato e decadente di una magia popolare in giro per un impero Romano alla fine dei suoi tempi e intriso dalla malinconia che accompagna l’accettazione della morte e il delirio che la precede, in Amarcord è il tribalismo della campagna e della provincia romagnola di un’infanzia perduta, in 8 1/2 è il tribalismo della mente di Guido popolata da archetipi e personaggi topici, come la Saraghina che ancora da adulto danno forma il suo immaginario.
Questa attenzione per i volti può essere vista anche nella scelta dei concept delle locandine di questi tre film. Tutti hanno come elemento centrale la moltiplicazione delle facce, il loro affollamento dello spazio, fino a saturarlo.
A questo proposito vi lascio anche il video che parla del modo in cui un altro dei miei registi favoriti, Bergman, filmi i volti.