1. Estetica della superficie e della profondità
Ciò che non si vede è importante quanto ciò che viene mostrato. È questo il principio poetico che dirige la maturazione del medium cinematografico. Sembra quasi un insulto al film in quanto medium artistico dire che quello che si vede non è poi così importante, dato che dal punto di vista della superficie estetica, un film può essere trionfale, dalla performance degli attori fino alla fotografia e al simbolismo mitico e letterario che può suscitare. Ma è proprio su questo concetto di estetica della superficie a cui contrapporrò una estetica della profondità, che voglio giocare la mia discussione su questo medium che amo e che probabilmente è quello a cui mi sento più legato e da cui sono più meravigliato. Siamo abituati a pensare i film come materiale di intrattenimento: facciamo la loro conoscenza da bambini da spettatori di cartoni animati, coloratissimi, al punto da risolversi nell’immagine di superficie che ne riceviamo. Questa tendenza continua a meno di non invertirla con un po’ di coscienza critica. Tuttavia è vero che al netto della coscienza critica in ambito cinematografico, a livello di psicologia della percezione, troviamo molto più difficile emanciparci criticamente da un’immagine che, ad esempio, da un testo scritto. La lentezza dell’innesco emotivo delle parole e la “proceduralità” della lettura e dell’immaginazione del lettore permettono un’emancipazione critica dal coinvolgimento emotivo di quello che viene letto che è enormemente più semplice rispetto alla difficoltà di emancipazione critica dalle immagini, per cui la velocità della percezione inibisce lo svolgersi di una argomentazione riflessiva. Di solito i film non ci danno il tempo di svolgere un’analisi in presa diretta su di essi proprio a causa della durata imposta dall’autore per la loro fruizione. Il patto narrativo di un film è che venga fruito tutto in una volta, al contrario del patto letterario per cui è impensabile leggere Guerra e Pace in una sola sessione. In questo senso la poesia è molto più simile al cinema che al romanzo e a sua volta il videogioco è più simile al romanzo che alla poesia o al cinema. La scelta del ritmo di lettura dell’opera (qui, tempo di lettura può voler dire anche tempo di gioco, ci siamo capiti) influenza pesantemente il grado di lucidità analitica del lettore, al netto dell’evidenza per cui per comprendere a fondo un’opera complessa non basterà, che si tratti di cinema, letteratura, poesia o videogiochi, una sola run.
L’immagine dunque gioca su di noi un effetto più subdolo della parola perché più immediato. Mentre nella letteratura abbiamo un ruolo attivo nell’immaginazione dell’arredamento del mondo, entro i limiti della descrizione dell’autore, nel film la libertà creativa dello spettatore si risolve tutta a posteriori, dopo la visione ed essa, per essere portata a termine non ha bisogno dell’attività partecipativa del lettore del romanzo o del player di un videogioco. Per esprimere brutalmente e parossisticamente questa idea basti pensare che un film continua a scorrere anche se ci addormentiamo, al contrario della storia di un videogioco o delle pagine di un libro che non si girano da sole. Probabilmente, il cinema, proprio grazie ai vincoli di intenzionalità autoriale che definiscono la sua grammatica, è il luogo per eccellenza della figura dell’Autore. Il margine di manovra concesso allo spettatore è minimo rispetto a tutti gli altri medium, nel cinema, e il lettore si trova a essere signoreggiato da un autore che gli impone ogni minima scelta stilistica, non solo a livello di estetica superficiale, ovvero della descrizione del mondo narrato, ma a livello della struttura e dei meccanismi della fruizione dell’opera (di nuovo, questo ricorda molto la poesia).
C’è tuttavia una tendenza particolare nel cinema a variare questa situazione, che sembra quasi paradossale, ma che come cercherò di spiegare nella mia tesi, è un principio comune a tutte le grandi opere estetiche e si riallaccia alla distinzione che citavo in precedenza tra estetica della superficie ed estetica della profondità. Nelle opere cinematografiche riconosciute come più emblematiche del medium, accade un fatto singolare: l’autorialità del regista e i vincoli di intenzionalità sono giocati contro loro stessi, raggiungendo un tale livello di nettezza nella stilizzazione personale delle immagini, e un tale livello di arbitrarietà creativa che quasi si rovesciano in una libertà interpretativa del lettore per quanto riguarda l’effetto estetico che producono. Ciò che intendo dire è che nel grande cinema, il grande autore è colui che riesce a usare l’estetica della superficie (quindi tutto ciò che concerne il punto essenziale del medium cinematografico, che è appunto tutto ciò che sta in superficie e che quindi si vede) non come fine ma come mezzo. E quando l’immagine viene usata come mezzo essa sposta l’innesco estetico a livello della profondità di ciò che non si vede. Dall’estetica della superficie si passa all’estetica della profondità. Paradossalmente il principio di poetica che dirige le scelte autoriali di questo passaggio filosofico da superficiale a profondo, è quasi un’autodistruzione del medium stesso.
2. L’epoca d’oro di Hollywood
Questo passaggio concettuale ha un corrispettivo storico. Il cinema d’autore, come concetto socialmente condiviso e come oggetto di discussione critica (non come oggetto in sé, infatti potremmo attribuire la categoria anche ad autori precedenti), nasce tra gli anni ’50 e ’60 in Europa, in particolare tra Francia e Italia e ancora più precisamente in Francia dove compare l’espressione per la prima volta in un articolo del regista Truffaut sulla rivista Les Cahiers du Cinema. In questa congiuntura storica avviene una riflessione critica sul ruolo del regista come autore nel film, che fino ad allora (con alcune eccezioni, vedi Chaplin, Lang, Dreyer) era stato mera figura esecutiva e accessoria, riassorbito dalla pressione delle grandi case di produzione in America dove il cinema diventa e si sviluppa come prodotto di consumo e di intrattenimento di massa. Nella prima fase del cinema americano c’è una netta dominanza dell’estetica della superficie. Film come Via col Vento, Casablanca, la filmografia di Marylin Monroe, Il mago di Oz, rispondevano a una grammatica seriale, con stilemi ripresi oggi nei moderni blockbuster, come ampia leggibilità narrativa, massiccia drammatizzazione e spettacolarizzazione dei passaggi narrativi tipici del genere del melodramma in cui l’effetto retorico ed estetico è dato dalla pomposità e dell’esasperazione dei comportamenti. Non è un caso che il cinema è un’industria in cui interviene lo stato in cambio dell’appoggio del New Deal e degli ideali di vita americana che le amministrazioni presidenziali vogliono imporre nell’immaginario collettivo. Il cinema è un mezzo politico (in modo paradossalmente simile a come lo sarà in Europa, ma con alcune nette differenze) perché la politica comprende il potenziale del cinema nel fissare ideali e immaginari a livello di cultura di massa con una penetrazione mai vista prima in ogni fascia della popolazione. Negli Stati Uniti dal 1934 al 1967 venne adottato il così detto Codice Hayes, dal nome del suo autore, autore che per ironia della sorte, poneva dei limiti morali agli autori dei film, dettando delle linee guida da seguire a meno di non voler incappare nella censura. Questi erano i principi generali del Codice:
1. Non sarà prodotto alcun film che abbassi gli standard morali di chi lo vedrà. Quindi la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, la disonestà, il male o il peccato.
2. Verranno rappresentati corretti standard di vita, previa considerazione delle necessità del racconto e dell'intrattenimento.
3. La legge, naturale o umana, non verrà ridicolizzata, né verrà generata simpatia per la sua violazione.
Non serve aggiungere molto altro per mostrare come il Cinema americano prima degli anni ’50-60 non era proprio un’oasi di licenza creativa e come non si possa parlare di autorialità a livello di istituzionalità delle figure registiche. È ovvio che il passaggio all’estetica della profondità segnerà l’apertura di potenzialità espressive mai conosciute prima, tuttavia non bisogna sottovalutare l’influenza che l’immaginario del primo cinema statunitense avrà per gli autori successivi, che attingeranno a quel panorama mitico rimaneggiandone le figure e usandole in modo creativo e ironico, spesso omaggiandole, altre volte criticandole e parodizzandole. La filmografia di Hitchcock ad esempio è ricca di temi e spunti che ricordano l’Epoca d’Ora di Hollywood, benché se ne discosti in modo palese, ma a livello di estetica di superficie ne richiama alcuni stilemi, come nella rappresentazione della vita ordinaria americana o nella inoffensività di qualsiasi glimpse erotico mostrato a schermo.
3. La nascita dell’autore nel cinema europeo
Dicevo che la percezione del ruolo del regista cambia con il cinema europeo della seconda metà del XX secolo. La Nouvelle Vague e il Cinema Italiano impongono nuovi stilemi e nuovi immaginari, prova ne siano i continui problemi di censura a cui vanno incontro, segno se non del valore estetico di un’opera o di un movimento, sicuramente degli elementi di rottura che introducono nel medium. È con questa spinta europea che nel cinema si verifica il passaggio a una estetica della profondità, che risemantizza il discorso semiotico intorno all’immagine. Se prima tutte le linee di forza si consumavano a livello della percezione immediata, della narrativa piatta del grande cinema americano, con questa svolta avviene un processo che di nuovo bisogna definire paradossale, perché sembra controintuitivo ma in effetti è una costante in tutti i medium: l’emergere dell’autore e della stratificazione simbolica che si accompagna all’introduzione dell’autorialità, corrisponde prima di tutto a una chiamata in causa per l’attività dello spettatore che non è più intrattenuto ma piuttosto trattenuto dalle maglie e dalle trame create dal regista, e a cui viene richiesto sempre di più un processo di decodifica dei messaggi impliciti dell’opera. In seconda battuta, e qui si annida il paradosso, l’emergere dell’autore, significa anche molto velocemente la sua eclissi, proprio per il motivo appena esposto: l’autore impone la sua marca stilistica sull’opera e la stratifica di sensi e di riferimenti, ma i segni a cui la vincola, la aprono alla ricchezza di interpretazioni possibili di un messaggio che si è ormai affrancato dalla didascalia moralistica e melodrammatica del cinema precedente. Un’opera più vincolata all’intenzionalità dell’autore è dunque più aperta alle letture di uno spettatore a cui si richiede una attività coinvolta perché il meccanismo narrativo raggiunga il suo effetto estetico. Non si può più soprassedere contando su una linearità narrativa funzione della chiarezza. Al contrario, dal cinema di Antonioni (si pensi a L’avventura o La Notte che sono mostrano situazioni fortemente simboliche da unire insieme con l’interpretazione dello spettatore) a quello di Fellini, da Godard a Truffaut, l’ambiguità del messaggio è l’innesco di una apertura interpretativa. È una conseguenza classica della teoria dell’informazione che alla maggiore informatività del messaggio si accompagna un maggiore ambiguità del significato. Solo i messaggi banali sono estremamente chiari, perché non permettono l’annidamento simbolico e la stratificazione dei riferimenti culturali.
È il limite che rende le storie, le teorie e i nostri atti comunicativi, pregnanti. Senza vincoli nell’articolazione delle strutture, non avremmo una traccia da seguire per comprendere i messaggi convenzionali, né una traccia sulla quale faccia risalto la sovversione originale della convenzione. E in questo senso l’effetto estetico originale non è affatto l’eliminazione dei vincoli ma piuttosto la loro variazione e il loro spostamento. Compito del bravo autore è far intuire la massa magmatica che sta segmentando per isolarne una storia, e dunque in un certo senso il suo compito è quel di stilizzare l’informe, non rendendolo per forza formato, ma rimarcandone l’informità. Ma questo stesso atto di rimarcazione introduce un principio di ordine e di comprensibilità e non ribadisce solo il caos ma lo isola almeno per un po’. L’arte è questo pendolo che oscilla tra la sovversione di tutti gli ordini, lo “squadernamento delle tassonomie”, e la riaffermazione negativa della loro importanza perché senza non ci sarebbe sovversione, per definizione. È allo stesso tempo superamento e rispetto dei vincoli e del Vincolo, quello finale, che è la morte, insieme ogni volta sfidata e alla fine accolta come insindacabile. Ogni volta che un film finisce, noi impariamo a finire e ci prepariamo alla morte.
4. Cinema negativo
E qui ritorniamo al punto di partenza. Il grande cinema d’autore porta al punto di rottura la sua stessa grammatica. Pensate a Citizen Kane: il motivo che mette in moto la trama è qualcosa di cui si parla tutto il tempo ma che viene mostrato solo all’inizio e alla fine. Appunto viene mostrato, non discusso, non spiegato. E questo indefinito oggetto del desiderio scandalistico che viene risolto nel finale è rivelato da un autore, che con la camera inquadra, senza aggiungere altro, la risoluzione del mistero. Rosebud non è solo l’espediente per mettere in moto una narrazione frammentaria e prospettica, in cui la figura del protagonista Charles Foster Kane viene ricordata attraverso flashbacks da persone che lo conoscevano, fornendo allo spettatore una conoscenza di terza mano, altamente rimaneggiata e che è implicitamente inaffidabile. Rosebud è una dichiarazione di poetica, il promemoria della potenza delle immagini, che trovano nel cinema il loro trionfo. La risoluzione del problema della vita esiste solo nella finzione cinematografica in cui l’intenzione della disposizione del mondo coincide con la volontà dell’autore. Il finale di Citizen Kane sembra quasi esercitare un compito morale (si noti la differenza tra la moralità onesta di Welles e il moralismo del cinema classico americano), perché fornisce allo spettatore gli strumenti per la critica del cinema stesso, dell’immagine come strumento di ordinazione del caos e del caso che invece domina l’esistenza fuori dallo schermo del cinema. La soluzione ce l’abbiamo solo nel film, quindi Welles ci sta ricordando che la realtà è più complessa. Ma il film ci da comunque uno spunto per mettere ordine alla realtà – come diceva Eco, l’arte funziona come metafora epistemologica, matrice di ordini possibili – e nel caso di Citizen Kane, ci spinge a riflettere sul nostro passato e proprio sul grado di rispetto che bisogna avere per la realtà affinché essa non ci colpisca con violenza opponendoci le sue smentite e facendoci più male a causa del nostro fragile dogmatismo. Il trionfo dell’immagine in Welles corrisponde anche alla dotazione di strumenti per la sua critica meta cinematografica.
Principio simile alla narrazione prospettica di Citizen Kane lo ritroviamo in Rashomon di Kurosawa, dove il conflitto frutto dell’inaffidabilità e della contraddittorietà delle visioni non viene neppure risolto da un autore onnisciente che usa la camera come fosse l’Occhio di Dio. Le immagini dunque arrivano a mettere in dubbio la loro stessa funzione di realismo e il principio realistico si sposta a livello della struttura della narrazione più che nel suo oggetto. È la struttura di Rashomon che ci ricorda la complessità della realtà e i problemi della menzogna e della verità. Il messaggio è la struttura. Ogni immagine può essere usata anche per mentire e niente è come sembra (per questo Rashomon è uno dei migliori film thriller mai girati).
Apoteosi del cortocircuito tra superficie e profondità, immagine mostrata e silenzio implicito, è la filmografia di Bergman, il cui protagonista per eccellenza non sono i personaggi dei film ma un concetto intangibile e non rappresentabile: il Silenzio di Dio, lo smarrimento e la perdizione dell’uomo, qualcosa che per definizione non può essere mai mostrato ma al massimo suggerito. Le immagini sono metafore, specchi di un fantasma che è difficile perfino riflettere. Ma mostrando la difficoltà di questa riflessione è possibile almeno lasciarne intuire il mistero.
In 8 ½ lo stesso principio di apertura e disintegrazione del tessuto dell’apparenza dell’immagine mostrata è portato alle estreme conseguenze. Ciò che vediamo è ciò che non dovremmo vedere, ovvero il processo di creazione del film stesso che stiamo vedendo. Di nuovo è la struttura della narrazione a contare e il contenuto diventa funzione della struttura, che porta tanto messaggio quanto il contenuto stesso (Adorno dopotutto affermava che lo stile è “contenuto sedimentato”).
Per spostarci nel cinema contemporaneo, il regista di Hong Kong, Wong Kar Way nel suo capolavoro, In the mood for love, racconta una storia d’amore al negativo, nel senso che non mostra mai nessuno dei momenti d’amore della coppia protagonista, ma li lascia intuire e crea l’illusione prospettica del loro amore solo attraverso il mood, che dà il titolo alla pellicola, che i due esprimono nella loro intesa, solo dopo che tutto è già successo. Il regista qui arriva sempre in ritardo, quando la storia si è già svolta, come la Nottola di Minerva. Dice tutto ciò che è sufficiente dire per far intuire, fermandosi sempre il momento prima che diventi necessario mostrarlo. Dopotutto è il principio alla base della sintesi minimalista della forma poetica (di nuovo cinema e poesia si dimostrano simili nei loro principi di estetica) che espunge tutta la ridondanza e per lo stesso motivo diventa oscura ma aperta e interessante. Non è l’oscurità dell’incomprensibilità, ma quella delle possibilità della comprensione. Da questa convivenza deriva il piacere di perdersi nelle opere: abbiamo abbastanza per immaginare ma non troppo da risolvere ogni interpretazione per sempre.
5. Horror: dal jump scare a Eggers
Questo elenco non ha ambizioni di esaustività ma vuole essere un veloce excursus che registri il rapporto ambiguo del cinema con l’elemento minimo della sua stessa grammatica che è l’immagine, sempre messa in discussione nel cinema d’autore e sottoposta a una critica costante e produttiva. Ma secondo l’opinione di chi scrive, in nessun altro genere questo principio di poetica, che potremmo chiamare cinema negativo, conseguenza imprevista dell’estetica della profondità che entra in cortocircuito con l’estetica della superficie, si manifesta più chiaramente che nel cinema horror. Proprio perché il cinema horror va incontro a semplificazioni nella grammatica di base del genere che fanno risaltare in maniera molto vivida i tentativi ben riusciti. L’horror in effetti si presta a entrambe queste possibilità: da un lato a quella semplificazione dovuta all’abuso di espedienti retorici di superficie come il jump scare, lo splatter ecc.; dall’altro lato, gli autori più avveduti possono attingere a un repertorio retorico molto raffinato che fa leva sugli effetti di profondità a cui i temi horror della paura, dell’angoscia e dell’ignoto, si prestano in modo naturale. E grazie a quegli effetti di profondità che è possibile innescare gli effetti estetici dell’horror facendo leva sul principio di negazione delle immagini di cui parlavamo. L’immagine diventa solo l’inizio del processo interpretativo dell’opera, e non si risolve affatto in essa. È ciò che viene suggerito e non mostrato a fare problema nell’horror, a far esplodere l’immaginazione proprio grazie all’indefinito, all’imminenza di una rivelazione che non viene mai esplicitata. Sono horror in questo senso anche i videogiochi di Hidetaka Miyazaki della serie Dark Souls e Bloodborne, perché l’orrore a cui sottopongono è cosmico, non viene mai rivelato ma si agita sullo sfondo di devastazione del mondo di gioco piuttosto che nella sua esplicitazione diretta: tutto è già successo e noi ci troviamo alla fine di un mondo in rovina, su cui incombe una distruzione inevitabile e la resa dell’agire è ciò che ci spaventa di più in assoluto perché testimonia della nostra inettitudine.
Il body horror di Cronenberg risponde a questo principio. Noi vediamo solo gli effetti di superficie sui corpi deformi, ma non sappiamo cosa gli succede davvero, a livello chirurgico, direi “chimico”. L’ignoto che si cela dentro la mente dei folli che abitano i film di Cronenberg e sotto la pelle dei loro corpi deformi sfugge. I primi film della produzione del regista sono emblematici perché rappresentano al meglio il silenzio e la follia che si insinua sotto la carne, e che anzi è smaterializzata. Stereo, ad esempio, film praticamente muto, dove a deformarsi non è il visibile del corpo, ma l’invisibile della mente. Ed è proprio negli effetti oscuri e mai chiariti che il corpo ha sulla mente e viceversa che si gioca la carica della sua poetica, nell’ignoto che si annida nel momento in cui la tecnica sfugge dalle intenzioni dei suoi creatori e si ibrida alla natura invece di riuscire a dominarla. Il cinema horror in generale esplora queste situazioni liminari, al limite di quello che possiamo sperimentare e conoscere, perché è sui bordi del baratro più che nel fondo di esso che si consuma la paura dell’ignoto e l’intuizione della follia, perché solo sui bordi abbiamo la misura della differenza grazie alla vicinanza alla familiarità che ci stiamo lasciando alle spalle.
Nell’horror l’immagine è continuamente sublimata e superata perché non costituisce il punto d’approdo dell’effetto estetico, bensì il punto di partenza. Non scopriamo mai quanto sia profonda la tana del Bianconiglio, niente viene risolto, tutto rimane aperto ed è l’apertura a una possibilità poco chiara che genera l’angoscia. Matrix è la negazione del genere horror ad esempio, perché propone soluzioni meccaniche e analitiche. La pillola rivela tutta la verità a Neo, gli fa scoprire la tana del Bianconiglio, e non importa quanto sia profonda perché ormai gli è stata fornita la luce della conoscenza e della rivelazione. Matrix è un film positivista, e quando smette di esserlo entra palesemente e fastidiosamente in contraddizione con i suoi presupposti (per questo è così irritante quando Neo riesce a fermare le seppie alla fine del secondo film, con un deus ex machina del tutto ingiustificato stanti i presupposti narrativi del primo film). Nell’horror invece l’oscurità è incommensurabile e irrisolvibile. Non ci sono pillole. E se anche ci fossero, nessuno ci garantirebbe che esse ci rivelino la verità o un oscurità ancora più profonda.
Concludo con un regista giovanissimo e promettente. Robert Eggers, autore di The Witch e The Lighthouse. Vorrei parlare proprio di The Lighthouse, anche se il mio discorso è applicabile facilmente anche al suo primo film. Il momento rivelatorio del film non si vede, è riservato al personaggio che ne fa esperienza e non allo spettatore. È proprio per questa scelta di sottrazione (si pensi alla valigetta di Pulp Fiction, stesso espediente ma in salsa ironica) che fa percepire la minaccia. Ciò che non si vede fa più paura perché non sappiamo come potremmo evitarlo non sentendolo arrivare. E allo stesso tempo, se lo vedessimo non potremmo più evitarlo perché la sua visione ci perseguiterebbe per sempre come una verità terribile (la eldritch truth lovecraftiana). Come la balena di Moby Dick con la sua bianchezza, che non è un colore ma la “negazione di ogni colore”, come dice Melville, sottopone Achab alla fissazione monomaniaca della caccia, svuotandolo del senno per riassorbirlo nel vuoto oggettivo e imperterrito della fame insaziabile della natura e del sublime (di cui la balena è simbolo), così Thomas, il personaggio interpretato da Pattinson nel film, diventa pazzo per inseguire la luce bianca del faro. Ciò che ci terrorizza in entrambi i casi è la totale perseveranza dell’oggetto desiderato che è totale perché non mostra sforzi nel perseverare e non implica impegno nella sua stabilità ma semplicemente è, a cui viene opposta dai personaggi una delirante perseveranza che tuttavia non potrà mai essere all’altezza, che non sarà mai sufficiente, a causa dell’insondabilità dell’oggetto desiderato. Una dinamica simile a quella messa in scena in Berserk. Un male opprimente proprio per la pressione che esercitiamo per potercene liberare.
La luce di Eggers, la balena di Melville e l’Eclissi di Miura sono i momenti della rivelazione della nostra insufficienza, il promemoria che non basteranno sforzi, per quanto folli, per comprendere il mondo. Ci sarà sempre un cono d’ombra, che ironicamente è bianco, troppo luminoso per essere visto dritto negli occhi, perché come un basilisco ci ucciderebbe se gli rivolgessimo il nostro sguardo diretto. Non basta più il linguaggio per esprimere il terrore, c’è solo un grido ultraterreno (il grido di Thomas distorto e alterato quando tocca la luce), un’angoscia svuotata di lucidità, l’umiliazione dell’impresa razionale difronte al Silenzio di Dio, una luce fissa e bianca. Una luce così assordante da non saperla articolare in immagini. Possiamo vederne solo gli effetti di superficie e collegarli con altre superfici, da Moby Dick a Coleridge, da Lovecraft a Prometeo. Questa superficie, gioca con altre superfici, in un gioco di specchi che se non riesce a replicare la profondità del mondo di sicuro riesce a mostrarne la vastità di intrecci e quindi, anche se in modo disperato, in un certo senso, a domarne il mistero. Proprio affermandone l’impossibilità. Almeno questo limite rimane un punto da cui cominciare. E allora sì che le immagini serviranno di nuovo, ma solo in un gioco di specchi infinito dove nessuna immagine basti a sé stessa. E così scopriamo che l’estetica della profondità proprio perché autodistruttiva nei confronti della suo stesso lemma di base, l’immagine, si sublima in una estetica degli specchi e delle moltiplicazioni.
Mi è piaciuto davvero questo articolo. L'osservazione iniziale sul ruolo dell'autore nel cinema e della conseguente caratteristica tipica del mezzo secondo la quale la fruizione di un film è dettata dall'autore molto più che in altri mezzi mi ha fatto ripensare a una vecchia affermazione di Scorsese, che disse che i film la prima volta si guardano, ed è solo dalla seconda visione in poi che si studiano. Credo che sia non solo un punto di vista molto condivisibile, ma anche una probabile chiave di lettura su quali siano le prerogative del mezzo non solo per la comprensione dei suoi prodotti e dei suoi autori attraverso lo studio, ma anche per capire che quello scoglio per certi versi ineliminabile rappresentato dall'intenzionalità dell'autore e la "difficoltà di emanciparsi" dalle immagini di cui parli sia proprio una caratteristica che il mezzo ha e deve continuare ad avere per sua stessa consistenza.
Very nice, grazie per gli spunti!