La casa vecchia
Spazi e oggetti, molto più che storie o episodi specifici, popolano i ricordi della mia infanzia. Quell’alone, la sfumatura, l’atmosfera di quegli anni, è rievocata e modellata nella mia memoria in senso prettamente topologico. Ricordo poche facce, amici, situazioni particolari o episodi memorabili: vista dal futuro, che è il mio presente oggi, la mia infanzia è l’articolazione di certi spazi e la disposizione degli oggetti al loro interno, quasi che la loro disposizione fosse il riflesso necessario e univoco delle emozioni, della temperie che definiva un’epoca: nella ingenua memoria del me stesso bambino modellata da meccanismi causali che hanno ben poco di scientifico, l’articolazione degli spazi e la disposizione degli oggetti non era incidentale e casuale, ma celava un significato nascosto capace di rivelare una verità. Una camera e un computer sono le entità che popolano i miei ricordi: l’asciuttezza minimale di questa scena è risolutiva. Un corridoio, una camera a forma di quadrato e un quadrato a forma di schermo riassumono quello che rimane della mia infanzia. Le cose stavano così per un motivo. Mi accorgo ora che invertivo molto facilmente causa ed effetti, come fanno in realtà anche molti adulti, anche dopo i 10 anni, facendosi persuadere dalla promessa del senso celato nelle stelle, come se il caso fosse solo il circospetto ambasciatore di un messaggio riservato a chi sa riconoscerne la guisa.
“La casa vecchia”, come comunemente ci si riferisce in famiglia alla casa dove ho passato i primi 9 anni della mia vita è il nome di quei quadrati. Probabilmente devo ad essa il modo in cui ricordo la mia infanzia, e soprattutto devo al fatto di aver cambiato casa, l’esplicita appartenenza di quel periodo della mia vita alla classe dei “ricordi di infanzia”, come se la realtà avesse deliberato il limite oltre il quale iniziava un’altra fase. Ero abilitato a mettere nel reparto “ricordi” tutto quello che era successo nella casa vecchia. Questa classificazione precoce ed esplicita dei ricordi della mia infanzia, mi ha in qualche modo cambiato. Probabilmente è a quel cambiamento che risale la mia decisone di indipendenza e libertà, una rivendicazione che non smette di accompagnarmi tutt’ora. Come se in quel momento avessi deciso di diventare adulto, lasciandomi alle spalle il passato, prendendomi la responsabilità di me stesso. Non è possibile sapere, né forse è una domanda che ha senso porsi, quanto di questo bisogno esistenziale di indipendenza sia stato autoimposto o sia sorto perché mi avevano detto che fossi un tipello piuttosto indipendente per la mia età, forse solo per farmi un complimento insincero. Forse decidiamo di diventare le bugie bianche che gli adulti ci raccontano quando non abbiamo gli strumenti per capire che stanno mentendo. Ma direi che se anche fosse una bugia, mi è andata bene. Avrebbero potuto raccontarmi bugie ben peggiori, tipo che fossi bravo a giocare a calcio (per fortuna sono sempre stato totalmente negato a farlo, per quanto impegno ci mettessi). E così la casa vecchia diventò ben presto, da contenitore fisico della mia infanzia, contenitore mentale di ricordi, spazio mentale grezzo dove finiva tutto quello che portava l’etichetta di “infanzia”. Inevitabilmente deformati e variati come tutti i ricordi, ma molto stilizzati.
La casa vecchia era la casa che aveva irrisolvibili problemi di umidità, soprattutto nella camera dove mio padre aveva una sorta di studiolo, in fondo a destra, quella con l’attaccapanni di legno scuro e la scrivania con il computer, bianco e verde, come un pino con il tronco pallido e la chioma accesa di colore. Chissà quanti di questi flash fossero davvero reali e quanti sono stati esasperati e drammatizzati dalla mia memoria. Ma nella mia memoria, muffa e divertimento costituivano un binomio di proibito e desiderato, il simbolo ante litteram della trasgressione adolescenziale. Nella stanza umida c’era il computer e il computer era una realtà nella realtà, e come tale inevitabilmente destinato a essere migliore e più interessante della realtà che lo conteneva. L’una era chiara e rivelava sé stessa, l’altro resisteva a rivelarsi: dovevi accenderlo, muovere il mouse e schiacciare tasti. Era una promessa di novità incredibile. Il fatto che quella scatola fosse in casa mia era allo stesso tempo eccitante e rassicurante. Sapevo che c’era qualcosa di più, che quello che vedevo non era tutto, e quindi ero sicuro che esisteva una meraviglia che non avevo mai provato, la garanzia di qualcosa di… speciale. A distanza di anni, mentre scrivo mi accorgo che probabilmente la minaccia di una umidità insopportabile e della muffa strisciante erano solo espedienti per dissuadermi dal desiderio della scatola magica. Chissà. Non voglio sapere la verità in fin dei conti.
Fatto sta che in qualche modo vivevo nella luce riflessa dell’eccezionalità di quel computer. A scuola, nel mio paesino fondato sulla cultura della campagna, praticamente nessuno aveva un computer in casa, e sicuramente nessuno aveva il computer che io avevo, modello che era il vero motivo del mio vanto: un Apple. Era un iMac del 1998.
Eccolo. In tutta la sua rotondeggiante promessa di essere “altro” e in qualche modo “di più”. La mia finestra su un altro mondo. Una finestra che per lo più rimaneva chiusa a dire il vero. Fissavo quello schermo nero, muto, impassibile con risentimento, quasi vacillando: alla fine probabilmente non era questo granché. Era quello di cui avrei voluto convincermi. Sarebbe stato meglio per tutti. Sapevo che già, in modo preriflessivo, che è meglio non desiderare ciò che non puoi avere. Eppure.
Decisi che se non potevo aprire la finestra per ottenere l’interattività digitale, avrei giocato con la finestra chiusa. In questo l’iMac rivelava la sua eccezionalità. Non era solo una finestra sul virtuale, era anche un oggetto interessante dal punto di vista analogico. Era stranissimo. Non c’era niente del genere nella mia vita a parte quel computer. Nessun altro oggetto gli somigliava. Chi si è mai trovato davanti a uno di essi, avrà giocherellato con il mouse al di sotto del quale non c’era il classico laser, ma una pallina di gomma per tracciare il movimento della freccetta sullo schermo. Ma le sue appendici erano niente in confronto all’interesse chirurgico che suscitava il suo interno. E quel che più mi affascinava era che allo stesso tempo offrisse delle porte di accesso dentro la sua cavernosa corpulenta carcassa, ma senza eccedere. Avevo visto qualche altro aggeggio elettronico e mi colpiva del mio computer la sua essenzialità, il fatto che non volesse aprirsi a me, e allo stesso tempo il fatto che mi facesse intravedere i suoi segreti. C’erano due fori per le cuffie sul lato destro. Il fatto che, invece, il lato sinistro non avesse aperture è stata la delusione più insopportabile della mia vita almeno fino ai 12 anni. La negazione della simmetria mi disturbava e allo stesso tempo mi dava l’idea di qualcosa che non era in mio potere, che non potevo controllare ma che dovevo accettare, come se il computer avesse una identità sua, che io volente o nolente ero costretto a rispettare in tutta la sua asimmetrica idiosincratica arbitrarietà. Sotto lo schermo, si apriva la bocca del computer, in grado di leggere CD-ROM, decisione rivoluzionaria per l’epoca dove il principale supporto era il floppy-disck. Ovviamente all’epoca non lo sapevo, eppure posso dare un senso ad alcuni altri ricordi di quel periodo alla luce delle mie conoscenze attuali sull’evoluzione degli oggetti tecnologici. Mio padre aveva una scatola piena di quadratini neri, sottili. Era piena non per modo di dire. In quella scatola c’erano solo quadratini neri e altri quadratini neri. La loro quantità faceva da contraltare alla loro perfetta inutilità. Mio padre mi ci faceva fare quello che volevo, e continuava a ripetermi che ormai non si usavano più. In realtà si usavano eccome, solo che l’iMac G3 aveva rinunciato a leggerli per predire il futuro, montando solo il lettore per CD. Era un tipo abbastanza profetico, il mio amico nella stanza della muffa. Altre aperture minuscole sulla destra nel corpo laterale del computer completavano i suoi orifizi che per me non avevano nessuna funzione immaginabile. Forse per quello mi infastidivano tanto: era come se fossero messi apposta per innervosirmi, facendomi illudere che potessi entrare dentro il computer. Mi davano una promessa di speranza che non faceva che alimentare la mia disperazione.
Ma gli orifizi, rivestiti internamente dalla guaina di metallo che avrebbe dovuto accelerare la mia fuga elettrica dentro il computer quando sarei stato in grado di diventare impulso attraverso dei fili, non erano niente in confronto alla trasparenza che si apriva sulla scocca superiore che lasciava intravedere l’affollata perfezione elettromeccanica assopita là dentro. Se dovessi paragonare a un’immagine la confusione aggrovigliata che vedevo nella carcassa oggi userei questa:
Aveva un certo fascino sessuale quella trasparenza, ammiccante come il decolté provocante di una ragazza così sicura di sé da non avere paura di rimanere pedissequamente muta ma comunque in grado di catalizzare gli sguardi di tutti gli invitati.
Se volessi proseguire nella metafora cronenbergiana, tuttavia, dovrei dire che il sesso, con la macchina, non corrispondeva a spogliare la ragazza, ma a far ballare quel decolté. E così fu. Capii che non c’era bisogno di entrare nel computer per capirlo. Bastava accenderlo. Così mi avrebbe rivelato i suoi segreti. Segreti perfettamente superficiali. Piatti come lo schermo bianco su cui si assemblavano per essere scoperti da me. La chirurgia senza bisturi che arrivava a coincidere con l’inviolabilità della superficie dello schermo.
Tra le formiche in fuga dai giganti
Così mio padre mi iniziò.
Finalmente davo un volto a quell’amico silenzioso (il volto in alto a sinistra). Per impressionarmi, l’amico fino a quel momento così taciturno, si presentò con le sue carte migliori: Bugdom. Il primo videogioco che io abbia mai giocato nella mia vita era un platform sviluppato da Pangea Software. 10 livelli con una ripidissima curva di difficoltà, praticamente impossibile fa completare per me da solo, estremamente facile da completare per mio padre, di diversi ordini di intelligenza superiore al me seienne. Credo sia stato il solo e unico videogioco giocato da mio padre nella sua vita, per lo meno la sua vita adulta. Intense sessioni di viaggio videoludico alla scoperta di mondi impossibili. Era un sogno: il gioco era ambientato in un mondo alieno eppure familiare, perché si collocava su scala ridotta, una scala a cui non abbiamo accesso, quella degli insetti. Il fatto di poter non solo immaginare un what if, ma vederlo all’opera, come se fosse un esperimento mentale che si dispiegava sotto i miei occhi, ha probabilmente definito inconsciamente una buona parte della mia personalità. L’immaginazione e il desiderio di capire cosa succederebbe date certe regole, come esse abbiano una conseguenza a cascata sul resto, come il punto di vista determina il set di possibilità che è possibile esplorare, come i limiti di un certo mondo ne definiscano allo stesso tempo le potenzialità e come ogni potenzialità è tale in virtù dei limiti entro cui ha senso parlarne… Tutto questo, mi accompagna ancora oggi, così come il ricordo del personaggio giocabile, simbolo distillato di quella vertigine intellettuale che iniziava a covare:
La cosa seducente di quel mondo era la percezione di una intenzionalità. Tutto aveva un senso, anche se la maggior parte delle volte mi sfuggiva o non riuscivo a imboccare la catena esplorativa che me lo faceva sciogliere, comunque sentivo che c’era. La certezza che ci fosse un senso, dava anche la misura del fallimento, la misura dell’errore. Si poteva sbagliare eccome in Bugdom, potevi morire, perderti, mancare i segreti e gli obiettivi, collezionare oggetti rarissimi e ambiti, migliorarti, superarti, salvare altri insetti. Tutti meccanismi incredibilmente banali per ogni videogioco. Eppure, quel mondo esplodeva nella mia mente, che riempiva gli spazi vuoti, deformava i pixel per farli aderire perfettamente all’immagine che volevano suscitare. Nella mia mente, la grafia di Bugdom sarà sempre più simile al mondo reale che all’immagine mendace che ho affisso sopra. L’ostilità di quel mondo lo rendeva reale, sovrascriveva ogni altro giudizio. Il senso di scoperta e di sfida superata che ne derivava era impagabile perché si realizzava con una nettezza della sagoma infinitamente più vivida e riconoscibile di come di realizzava nella vita reale. Il modello del mondo era migliore della realtà da cui prendeva ispirazione, la migliorava, la schematizzava e la rendeva remunerativa in termini di esperienza emotiva e di appagamento psicologico. E mi faceva esplorare mondi che non potevo esplorare: reami e biomi diversi, cromaticamente assurdi. Ricordo un livello sprofondato in una nebbia rossastra dove piedi enormi cercavano di schiacciarti. Ero talmente immerso e convinto che Bugdom fosse la realtà, che quelli erano piedi di giganti per me. Solo ora so che erano i miei piedi, i piedi degli umani. Ma quando giocavo a Bugdom io ero quell’insetto blu con le scarpe da basket, erano gli esseri umani a diventare gli alieni. In un altro livello, ricordo la frustrazione di mio padre nello scontro con le api in un ambiente claustrofobico e grigio (o forse erano ragni e ragnatele?, non voglio saperlo), ricordo il livello finale con le formiche, e la geniale conclusione di mio padre che per sconfiggerle avremmo dovuto usare l’acqua delle tubature per annegarle. Geniale. Quell’intuizione ai miei occhi lo era tanto di più perché credevo che le operazioni che si potessero fare all’interno del mondo di gioco fossero infinite, e che non ci fossero indizi espliciti su cosa fare per risolvere un problema, proprio come nel mondo reale. Probabilmente era la cosa più banale del mondo, ma quell’intuizione per me rimaneva geniale, una conquista incredibile dell’intelletto. Allo stesso tempo, subivo l’illusione dell’infinito e la certezza della garanzia di soluzioni precise. Due cose che non stanno insieme se non nelle storie di fantasia. A 17 anni di distanza, vedo che quella è l’essenza del videogioco come medium. La ricerca di mettere in scena la perfezione: quando i limiti non sono più ostacoli da superare ma diventano la sagoma di cui andare fieri. L’adesione a sé stessi.
Un concetto che mi tormenta e che posso illudermi che provenga da allora, per chiudere il cerchio, barando, raccontandomi una storia che sembra troppo romanzata e perfetta per essere vera. Ma è quello che faceva Bugdom e quella carcassa verde sul cui schermo io giocavo, alla fine: baravano, mi ingannavano, ma mi stavano salvando dalla vera illusione. Che la realtà fosse abbastanza.
E così ritorno in quella stanza ammuffita, a volte: sono sulle gambe di mio padre, sento le sue lamentele perché la visuale instabile del gioco gli faceva venire il mal di mare, e assisto meravigliato alla cosa più simile al perfezione che abbia mai provato. Poi ritorno al presente. Sono di nuovo davanti a uno schermo, ma è più sottile, ha meno personalità, meno presenza scenica. Scrivo la mia storia, compiendo meravigliato la cosa più simile alla perfezione che abbia mai provato.