Se c’è una sensazione che mi accompagna da sempre è la sensazione di una mancanza. Una mancanza imprecisata, che è talmente fondamentale da non essere identificabile. Se riuscissi a identificarla, credo che essa, in effetti, scomparirebbe. Per questo dicevo che è una mancanza fondamentale: sarebbe più corretto dire che è fondante, perché fonda ciò che sono e il modo in cui mi percepisco e mi esprimo, e rende la mia espressione possibile. Ogni mia parola è una ricognizione in quella mancanza, un azzardo alla sua risoluzione.
Eppure ogni parola rimane insoddisfacente. Tuttavia il pregio di una parola insoddisfacente è che è simbolo di quella insoddisfazione, e non solo riflesso pedissequo. La simbolizzazione è la traduzione da un sistema segni all’altro, di una informazione: per questo è informativa, perché rende disponibile una informazione in un codice che in una certa misura modifica inevitabilmente il messaggio stesso, dicendoci qualcosa di nuovo e permettendoci il confronto con il diverso da sé.
Forse è qui che sta un riscatto attivo di quella sensazione di incompletezza passiva. La possibilità di fissare quella mancanza in un dipinto, di cristallizzarla in un discorso, di fatto trasforma quella mancanza in qualcosa di diverso. Non è poi così male alla fine, e questa possibilità di relativizzare quello che a prima vista e nel linguaggio comune sarebbe negativo, è il valore dell’arte. L’arte è una epochè della realtà. Ma è una epochè che ci fa tornare alla realtà, perché non è fine a sé stessa, ma diventa filtro epistemico. L’arte stessa diventa, considerata nella sua lunga Storia (la storia dell’arte o delle arti), nella successione di piccole relativizzazioni a cui sottopone la realtà, simbolo di un metodo di relazionarsi al mondo: il metodo dell’ironia. Ma dove sta l’ironia di ogni opera? Nel fatto che finisca. Questo promemoria esplicito che ogni autore volente o nolente è costretto ad accettare, riconoscendo mentre lo fa, la manchevolezza inevitabile della sua opera nei confronti di tutto ciò che avrebbe potuto dire, è il valore morale dell’arte. Attraverso questa piccola morte, quella della fine di ogni opera, impariamo ad accettarci nella nostra manchevolezza inesauribile.
Vorrei fosse chiaro che accettarsi non vuol dire commiserarsi, né tanto meno indulgere con sé stessi, pratica ancora più deprecabile. Accettarsi vuol dire al contrario essere esigenti con le proprie possibilità. Accettarsi non dovrebbe suscitare l’immagine della stasi e della tranquillità a cui si accompagna la soddisfazione personale, il riposo dopo la fatica: accettarsi significa accettarsi ogni giorno di nuovo, in un processo non in una stasi, e quindi inevitabilmente ripetersi nel proprio discorso mentale verbalizzato onnipresente e logorante, che sembra riscattarsi dalla sua banale invadenza solo quando lo esprimiamo agli altri. Significa accettare la nostra inaccettabilità, continuare a inseguire la luce verde che inseguiva Gatsby, ma al contrario di Gatsby, vedendo la vanità dell’impresa, noi dovremo riderne. La risata edonista che gode del fallimento proprio è l’unica condizione che ci permette di essere pietosi di quello altrui. Accettarsi vuol dire voler continuare a essere mancanti, a essere incompleti e non finiti. Finché sentiremo il bisogno di accettarci, vorrà dire che saremo mancanti, che ci sarà uno spazio per migliorarci e per cambiare. Eternamente soddisfatti della nostra eterna insoddisfazione. Quando crederemo di non doverci più accettare vorrà dire che saremo accecati da una illusione, quella di aver finito il lavoro.
Quella sarebbe la vera resa.