C’era una volta in America è un film paradossale e volutamente contraddittorio, che fa scontrare le proprie strategie narrative per comunicare il suo messaggio: la decostruzione della figura del gangster e il racconto del suo fallimento.
Per raggiungere questo obiettivo, Leone crea un’atmosfera di elementi contrastanti. Il tono nostalgico della narrazione, suscitato dall’utilizzo del flashback e dalla struttura dell’intreccio narrativo che non segue l’andamento della fabula ma mostra gli eventi con un ping pong tra presente e passato più o meno remoto; la musica elegiaca di Morricone; i riferimenti all’infanzia e alla creazione di un gruppo di amici-fratelli. A tutti questi elementi, che spostano l’attenzione dello spettatore verso un’interpretazione elegiaca e romantica della figura del gangster, si oppongono la rappresentazione della brutalità dei loro atti e dei loro esiti: dalle rapine, alle violenze, agli stupri e le umiliazioni a cui le donne del film vengono costantemente sottoposte.
Di grande impatto è la scelta di mostrare il personaggio principale “Noodles” nella sua parabola esistenziale partendo dalla romantizzazione del suo passato. La scelta operata da Leone nella prima ora del film (che potrebbe essere visto come opera stand-alone per la ricchezza evocativa e l’autonomia dei temi esposti) è funzionale a farci entrare in estrema empatia con il protagonista, a farci vivere la sua pena, i suoi desideri e i suoi sogni, attraverso un ricordo trasfigurato della sua giovinezza, una parabola epica, che rende iconico il triviale, come è tipico del racconto biografico in cui ogni elemento viene letto sotto la luce della propria formazione, come in un orizzonte di fini più alto. Ma una volta stretto il patto narrativo che ci fa empatizzare con Noodles, Leone smentisce i suoi stessi presupposti e ci mostra la brutalità gratuita del protagonista, culminante nella scena dello stupro di Deborah, la ragazza che Noodles ha sempre (superficialmente) desiderato, ma comunque già preceduta da un’altra scena di stupro, ai danni di Carol, una donna che incontra durante una rapina.
L’integrità morale che Leone ci aveva portato a postulare riguardo a Noodles (per i suoi interventi sull’amicizia e il suo valore con gli altri co-protagonisti membri della gang), viene ribaltata. Il gangster non ha redenzione.
Questo meccanismo di smentita, mette il personaggio in imbarazzo, ce lo rivela nella sua dimensione di ridicola e patetica debolezza. Emblematica è la scena in cui Noodles non riesce a fare sesso con Eve, subito dopo aver stuprato Deborah. Il gangster non è visto sotto la luce glamour della star hollywoodiana, come accade in altri film, come Scarface, ma nella sua abiezione.
Un’altra scelta narrativa rende Once upon a time in America un film fortemente critico sulla figura del gangster: l’assenza della realizzazione dell’ascesa del gangster. La parabola classica del film americano, rappresentata in modo iconico da Goodfellas, in cui il declino segue solo al raggiungimento di una piena realizzazione apicale del progetto del gangster, è totalmente assente nel film di Leone. Grazie allo sfasamento temporale dell’intreccio, non vediamo mai a schermo il successo di nessuno dei membri della gang. Il protagonista “Noodles”, si trova sempre a dover scappare, proprio quando potrebbe iniziare a godere delle fortune che si è creato. Quando uccide il suo rivale in affari in gioventù finisce in prigione subito dopo, quando crede di aver riconquistato Deborah, lei va a Hollywood, quando finalmente la situazione sembra acquietarsi, è costretto a mettere tutto a rischio per Max il suo amico. La vita di Noodles è una vita di fallimento e insuccessi. Ancora più beffardo è vedere come proprio Max, il suo amico di infanzia, alla fine gli riveli di aver “rubato i suoi sogni” e di aver vissuto la vita che lui avrebbe desiderato, sposando Deborah, arricchendosi sempre di più di denaro e potere.
Eppure nemmeno questo apparente successo viene mostrato a schermo da Leone, che anzi si concentra nel mostrare come anche la vita di Max sia stata del tutto fallimentare e si stia risolvendo nella paura e nell’angoscia. Alla fine Max chiede a Noodles di ucciderlo per mettere fine alle sue preoccupazioni. Ma a nessuno dei due (praticamente co-) protagonisti viene riservata la redenzione finale, o una qualche risoluzione definitiva. Max non viene ucciso da Noodles come vorrebbe e Noodles viene lasciato da Max con la rivelazione di aver provato per 35 anni un rimorso inutile, per la messinscena della morte di Max. Cosa c’è di peggio del rimorso? La consapevolezza di non poter cambiare il passato e il desiderio di volerlo fare, una insoddisfazione lacerante e implacabile. Di peggio c’è un rimorso che si rivela inutile, perché era fondato su una menzogna e un tradimento. La certezza di aver sprecato 35 anni. E alla fine nessuno userà mai i soldi di quella valigetta.
Per tutto il film Leone fa credere allo spettatore di stare assistendo a un’elegia romantica, a un grandemente drammatizzato spettacolo di dolcezza sui personaggi del film. Finché a un certo punto non capisci che tutto ciò che hai visto è decadenza. Non c’è salvezza per nessuno, nessun personaggio positivo. Nemmeno l’autista di Deborah, in realtà, che alla fine si rifiuta di accettare soldi da Noodles dopo che lui ha stuprato la ragazza, ha avuto il coraggio di fermarlo durante l’atto. Tutto è perduto. La musica è fondamentale in questa strategia di depistaggio, anzi, è probabilmente il film in cui la musica assume il ruolo più importante della storia del cinema. La musica di Once upon a time in America è elegiaca e romantica, altamente drammatica e nostalgica. La musica è il vero strumento di depistaggio. Ci fa credere di stare assistendo a un’elegia solo perché il risveglio sia ancora più doloroso e umiliante. La musica che ci sembrava una melodia di nostalgia e di romantico biografismo si trasforma in una marcia di morte e disperazione, quasi un ghigno beffardo e pietoso per quello che sarebbe potuto essere e non è stato per colpa dei personaggi, che così banalmente hanno commesso il male.
Una contrizione per la nostalgia che ci sarebbe potuta essere, ma di cui non rimane che pena e pietà. Le note di un tempo perduto nel sangue o nella boccata anestetizzante dell’oppio, la fuga finale verso una vita sprecata.