Buonanotte, Punpun: il dramma di essere rappresentati
Quando la narrazione non è un riscatto
Letteralmente me
I personaggi negativi della letteratura sono spesso più affascinanti di quelli positivi. Sarebbero eccezioni le figure eroiche dello spirito di Dostoevskij, Alesa Karamazov e il Principe Myskin se non fosse che a renderli così interessanti è il contrasto con il male che dovrebbe corromperli ma non lo fa. Allo stesso tempo è difficile rendere il male davvero profondo, perché di solito la caratteristica del male è la sua superficialità. Superficialità dell’oggetto e profondità di trattamento sono difficili da accordare in modo melodioso. Credo che un buon modo per riconoscere un personaggio negativo ben riuscito sia capire quanto sia rassicurante. Spesso i lettori indulgono in una forma parossistica di identificazione con il personaggio negativo, l’eroe tragico, giocato dal fato, che non sceglie il male ma vi si trova costretto. Come il Joker cinematografico, questo male è rassicurante, perché tradisce il nostro bisogno di sentirci discolpati.
Questo fascino è diffuso nella cultura di internet legata alle figure negative della narrativa: è impossibile (ahimè) che non vi siate imbattuti almeno una volta nel fenomeno dei Literally Me Edit: dei video di breve durata, dal contenuto spesso motivazionale, ma sarebbe più corretto dire vittimista, che mostrano momenti topici della discesa nell’oscurità di certi personaggi, con un tono di trionfalismo che si giustifica nella misura dell’incomprensione altrui. Joker, il Ryan Gosling di Blade Runner 2049 e Drive, il Christian Bale di American Psycho, Walter White, Thomas Shelby. Di solito questi sono i più rappresentati. E, se è vero che questa esaltazione adolescenziale del tormento e dell’incomprensione che conduce al male è certo una lettura distorta di vittimisti insoddisfatti, è anche vero che tutti i personaggi summenzionati incorrono, in misure diverse, nel rischio di estetizzare il male. Un rischio che nel cinema è sempre dietro il prossimo angolo di ripresa, stante la natura mitizzante delle immagini cinematografiche e la ricerca, da parte del regista, di rendere “stilose” delle storie negative o quanto meno che meriterebbero lo sforzo dell’ambiguità. Alla fine è il motivo principale della poetica di Tarantino, non a caso il più amato dei registi contemporanei con la sua estetica da pastiche postmoderno in cui tutto vale tutto, al contrario del ben più cinico Kubrick che in Arancia Meccanica, al contrario di quello che si pensa, non mette in scena l’estetizzazione della violenza, ma la critica, in modo meta-cinematografico.1 Accusando addirittura il cinema in modo auto distruttivo e dall’interno, mostrando quale possa essere la forza delle immagini e della musica.
Il problema è che si confonde facilmente la “stilosità” con la stilizzazione. E laddove la stilizzazione di certi tratti della messa in scena significa stratificazione e complessità contraddittoria di simboli, come nel cortocircuito di Kubrick in cui il film mostra la potenza distruttiva del film stesso e fornisce la chiave critica per distruggere sé stesso, la stilosità è superficiale e vuota. Questo perché lo stile si ha quando la messa in scena è al servizio della narrazione e dunque ha dei vincoli, la stilosità è invece sempre praticabile e riproducibile senza vincoli. E infatti tutti i contenuti stilosi finiscono per assomigliarsi. Per me è ad esempio questa la differenza tra il personaggio di Walter White (stilizzato) e quello di Thomas Shelby (stiloso).
Ovviamente il Literally Me Character non nasce quasi mai per ispirare comportamenti imitativi, anzi, l’esatto opposto. Walter White o Joel di The Last of Us, funzionano perché respingono, ma solo dopo aver innescato empatia nei loro confronti. Ecco la complessità. Ma nella narrativa c’è comunque una tendenza alla banalizzazione del personaggio negativo, che rende più facile l’immedesimazione e non offre mai distacco critico per rendere complesso il personaggio. Se la superficialità inebria con manie di onnipotenza e riscatto anti sociale, manie di protagonismo adolescenziali e furia deicida e massimalista, la sensazione interessante propria dei personaggi negativi ben scritti ne rappresenta il rovescio: impotenza e silenzio commiseratorio.
Il silenzio dei colpevoli
Per parlare di Buonanotte, Punpun bisogna partire da questo senso di impotenza. Punpun, se stiamo alle regole del fumetto, non dice mai una parola per tutti e 13 i volumi dell’opera. Letteralmente. Infatti nel fumetto, in quanto medium, l’elemento che indica il discorso diretto di un personaggio è il balloon, la nuvoletta.
Asano decide di non dare nemmeno un singolo ballon al protagonista della sua storia, quindi tecnicamente non sentiamo mai la voce di Punpun che interagisce con gli altri personaggi. Tutto ciò che ci è concesso sono le didascalie a cui comunemente nei fumetti sono riservate le descrizioni del narratore o i monologhi interiori dei personaggi. Noi non vediamo mai l’atto verbale di Punpun, ma solo la sua eterna preparazione. Questa strategia stilistica ha un impatto impressionante, per quanto sotterraneo, sulla lettura. Ci proietta allo stesso tempo nell’intimità del protagonista, creando una fratellanza che deriva dal contatto brutale con l’immediatezza senza filtri delle sue idee, ma allo stesso tempo lo rende sconosciuto, paradossalmente, come se fosse un personaggio da completare con il coraggio di una azione che non avverrà mai. Questo mutismo del protagonista rende perfettamente la sensazione di autoisolamento sociale a cui Punpun si sottopone. Anche se ha amici e affetti, Punpun è chiuso dentro la sua mente. A questa sensazione contribuisce in maniera decisiva anche il modo in cui noi lettori vediamo Punpun: un piccolo uccellino stilizzato. Un effetto di straniamento tanto vigoroso anche grazie al contrasto tra il tratto veloce e schizzato di Punpun e gli sfondi iperrealistici, che non fa altro che rendere non unico ma isolato, Punpun. E in effetti era quello l’obiettivo dichiarato di Asano, che in varie interviste ha dichiarato di aver disegnato Punpun come un uccellino stilizzato proprio per non porre ostacoli all’immedesimazione del lettore. Un uccellino può essere chiunque, molto più di una persona dalla fisionomia ben delineata. Punpun è tutti. Ma se fosse stato disegnato precisamente, sarebbe stato solo sé stesso.
Questa è la prima mossa che rende il personaggio di Punpun diverso da tutti gli altri personaggi negativi. Non è stiloso. Anzi, tutto il contrario, è solo stilizzato, letteralmente, nel tratto con cui è disegnato, ma nulla di più. Esaltare Punpun diventa estremamente difficile vista l’operazione di riempimento che bisogna fare per renderlo un personaggio coerente. In che senso? Ponete attenzione alla mossa di Asano: qual è il modo più facile di riempire i buchi lasciati in Punpun? Ovviamente riempirli con la personalità che conosciamo meglio di tutte le altre, perché la conosciamo da sempre: la nostra. Esaltare Punpun, empatizzare con lui, vuol dire esaltare sé stessi almeno nella misura in cui Punpun è completato dalla nostra personalità. Una rivelazione che può colpire abbastanza violentemente: ti ritrovi a esaltare un personaggio; ti ritrovi a esaltare te stesso; e alla fine Asano ti mostra quanto meschino fosse quel personaggio, e quindi quanto meschino fossi anche tu stesso. Sei in trappola.
E ti ci sei infilato da solo.
Il silenzio autistico di Punpun e la sua indeterminata fisionomia sono i primi due elementi stilistici che contribuiscono a creare l’atmosfera di impotenza che sorregge il manga a livello narratologico. Ma anche stavolta Asano riesce a smarcarsi dal rischio del vittimismo giustificatorio e anzi ad accusarlo direttamente. L’impotenza di Punpun non è solo mediata dalla sovversione nella grammatica del fumetto praticata da Asano, ma trova compimento nelle scelte di Punpun a livello di caratterizzazione e di sceneggiatura. O meglio nelle sue non-scelte.
Tutta la drammatica storia di Punpun può essere infatti ricondotta alla sua pigrizia. Asano mostra sì i problemi che segnano l’infanzia di Punpun e la situazione familiare instabile, ma mostra con altrettanto vigore, enfasi e precisione, tutte le occasioni mancate da Punpun, tutte le persone che senza nessun merito da parte sua, continuano a motivarlo e a stargli accanto. E questo è un altro elemento che rende Punpun allo stesso tempo estremamente vicino a ognuno ed estremamente meschino: la facilità con cui lui stesso ha predisposto la sua giustificazione. I motivi per cui Punpun si ritrova nella sua terribile situazione sono autoinflitti, e dipendono dall’inazione. Una forma particolarmente inquietante di caduta nell’abisso perché di fatto non richiede nessun impegno attivo da parte del personaggio e in cui sembra, dunque, particolarmente facile ritrovarsi. Ma anche l’inazione di Punpun è una scelta. La scelta, appunto, di dotarsi di una scusa “facile”. Di una giustificazione che fa affidamento sulla manica larga del giudizio verso sé stessi quando si tratta di pigrizia. Potrai sempre dire che è “semplicemente successo”. Perché psicologicamente ha molto più potere causale un’azione che l’attesa. Anche se gli esiti sono gli stessi.2
Punpun non è un colpevole eclatante, né eloquente. Ma rimane un colpevole perché poteva scegliere bene e non l’ha mai fatto, anche se tutti gli ne hanno dato occasione più volte.
Uno squallido catalogo di errori
In un commovente passo del primo libro di Italianistica mai scritto (il De vulgari Eloquentia), Dante Alighieri afferma di poter trovare il riscatto all’esilio in cui si trova, nella cultura e nella conoscenza. Per un uomo del medioevo l’esilio dalla propria città è qualcosa di difficile da immaginare per noi uomini globalizzati che ci autoinfliggiamo l’esilio e lo cerchiamo come emancipazione e riscatto sociale. Andare via di casa rappresenta un rito di passaggio. Nel Medioevo significava perdere tutto, non solo in termini economici ma soprattutto in termini esistenziali e sociali, rimanere inascoltati per sempre. Il fatto che la poesia potesse rappresentare un riscatto a quella situazione di totale oscurità testimonia della portate titanica che Dante riconosceva alla cultura. Questa è un’idea incredibilmente potente che attraversa tutta la letteratura, dal Faust al Nome della Rosa: la convinzione di poter riscattarsi attraverso il racconto degli eventi che per quanto terribili, vengono trasfigurati e resi simboli universali attraverso la stilizzazione dell’arte. Il principio per cui ciò che è narrato è al di là del bene e del male e trae il suo maggior valore dal fatto stesso di essere raccontato. Io sposo in pieno questo principio di poetica, per un semplice motivo: la bellezza poetica è tale quando fornisce gli strumenti del distacco critico. Prendete Lolita, uno dei romanzi simbolo di questo principio dell’arte per l’arte, a detta stessa di Nabokov. Cosa lo rende un capolavoro? La sua precisione. Lolita è un grande romanzo perché è un romanzo preciso, e la sua bellezza poetica sta in questo. Ed è proprio la precisione della scrittura di Nabokov che è l'atto morale che permette il distacco critico dai fatti narrati, per quanto ambigui ed equivoci. Dunque l’essere al di là del bene e del male dell’arte è solo un passo momentaneo di un’opera. Fa guadagnare quella distanza necessaria a un autore per esercitare la moralità della precisione. Ma quella precisione permette di nuovo un giudizio, stavolta più complesso e profondo. E più consapevole. Un giudizio che non ha la brutale esecutività del boia ma il filo del rasoio.
Tuttavia da questa radice, così prolifica e foriera di immensi capolavori, nasce anche il cortocircuito dell’estetizzazione del male di cui ho parlato sopra. E un altro cortocircuito che ne fa il paio: la rappresentazione dell’errore.
Se si applica con troppa leggerezza e poca finezza il principio “arte per l’arte” si finisce per riscattare ogni errore alla luce della sua simbolizzazione. Gli errori diventano parte del percorso attraverso cui si raggiunge la consapevolezza, ma spesso vengono messi in secondo piano come tappe intermedie e finalizzate solo al raggiungimento della meta, e in questo modo se ne tradisce il peso e si depotenziano i loro effetti. Ci dimentichiamo del processo per godere di un risultato effimero. Così la comprensione dell’errore diventa una posa e non è più comprensione ma rito di passaggio. Da eseguire per togliersi un pensiero e dimenticarsi degli errori. Gli errori diventano mezzi per il fine, quando le grandi storie ci insegnano che gli errori sono i fini e il processo di miglioramento il mezzo per gustarne il peso, in una strana inversione motivazionale.
Ma come si preserva il peso drammaturgico dell’errore senza decentrarlo rispetto al risultato? Se l’errore costa fatica e ha delle conseguenze, così deve essere anche il suo eventuale riscatto per essere credibile e interessante e per evitare di tradire l’importanza dell’errore come momento fondativo dell’esistenza. Per questo ho sempre trovato particolarmente azzeccato il finale di Otto e Mezzo, quando durante il dialogo tra Guido e il Critico, nel momento di fallimento più disperato, il regista capisce che la sua vita non è la successione dei suoi successi, quanto piuttosto lo squallido catalogo dei suoi errori. La ricerca è la meta e la meta è la ricerca e infatti il film si ripiega su sé stesso, con l’inizio che è la sua fine e la fine l’inizio. E il film altro non è che la messa in scena della ricerca del suo stesso soggetto. Perfetto. Un riscatto sudato, sia per Guido che per lo spettatore. Un riscatto che avviene solo alla fine con una rivelazione che non cancella il passato ma lo valorizza e lo cristallizza, pure in tutte le sue storture. Un monumento all’errore, non al suo superamento.
Funziona.
Ma è uno dei pochi casi. Babylon è un esempio perfetto del modo in cui potrebbe non funzionare affatto (rimando all’articolo che ho scritto qualche mese fa).
Anche il finale di Buonanotte, Punpun si smarca dal rischio della banalità. A prima vista, quella di Asano, sembra una conclusione molto simile a quella di Otto e Mezzo, con una salvezza che arriva alla fine di un processo. Ma non è così. Punpun viene salvato immeritatamente e contro la sua volontà, dando valore a una delle frasi più memorabili del manga, pronunciata di sfuggita molti volumi prima: “la più grande punizione per chi commette il male è la consapevolezza che verrà perdonato.” Se Guido va alla ricerca della sua salvezza, Punpun la subisce.
Di nuovo, l’impotenza, la vita di Punpun sprecata nelle illusioni deliranti di un bambino in attesa della sua Aiko, di un’idea che è esistita sempre e solo nella sua testa, viene salvata senza che lui l’abbia chiesto, anzi proprio nel momento della resa definitiva. Nel momento in cui lui stesso si era augurato la buonanotte. Sachi lo trova steso per terra, nella rinuncia finale, e come un deus ex machina rovesciato, lo salva proprio quando non vorrebbe essere salvato.
Anche la sua stessa salvezza non è merito suo. Punpun è condannato all’esistenza. Ma non è questo il dramma più grande. Non solo salvato suo malgrado, ma anche riscattato suo malgrado. Punpun diventerà un fumetto a opera di Sachi, in una conclusione metanarrativa. Destinato a essere rappresentato, senza il balsamo del riscatto della simbolizzazione narrativa. Un monumento umiliante alla sua disfatta. Se Guido decide volontariamente di attuare il suo riscatto, rinarrandosi, Punpun rimane impotente anche in questo caso. Sachi è l’autrice della narrativizzazione della vita di Punpun. Il nostro protagonista non avrà mai il riscatto della simbolizzazione. A lui spetta solo l’onta dell’essere rappresentato, il simbolo finale della sua impotenza: diventare un monumento dell’umiliazione senza averlo scelto. Un ammonimento muto e involontario. Così il tema di Punpun sul finale diventa il dramma dell’essere rappresentato, del non poter essere dimenticato. Proprio il desiderio di Punpun, quello di scomparire nell’indifferenziato del cosmo e delle stelle, rifiutando la realtà, aspettando una ragazza che esisterà per sempre uguale a sé stessa solo perché esiste solo nella sua mente, rimarrà irrealizzato, perché la realtà verrà per sempre registrata nell’insindacabile pagina di un fumetto, molto più solida e pesante di tutte le fantasie senza fondamento di Punpun.
La morte, dopotutto, sarebbe stata comunque una forma di redenzione per Punpun, non una punizione, troppo poco coraggioso per infliggersela da solo, ma continuamente alla sua ricerca. La vera punizione per Punpun è la vita circondato da persone che gli vogliono bene. E l’incontro finale con il suo vecchio amico delle elementari, che si è costruito una vita, monotona, inquadrata, forse vuota, a dimostrazione dei problemi della società giapponese mai troppo grandi da essere la giustificazione delle azioni di Punpun, offre la chiusura drammaturgica perfetta. Finalmente usciamo dalla mente di Punpun nella quale eravamo stati forzati da Asano per 13 volumi. Vediamo il mondo dagli occhi di Harumin, un mondo indifferente. Un mondo in cui Harumin non ricorderà mai il nome del suo vecchio compagno di classe con cui aveva condiviso qualcosa, senza avere mai il coraggio o l’occasione di dirsi quanto erano stati importanti l’uno per l’altro. L’ultimo e forse più potente invito di Asano ad agire.
Provate ora a dire che Punpun siete letteralmente voi.
Ho parlato di alcuni dei temi di questo articolo in una live:
Per approfondire l’argomento, c’è tutta la letteratura filosofica e neuroscientifica sul Trolley Problem (quello del treno in corsa diretto su delle persone e il controllo di una leva per deviarne il corso, ovviamente in mano tua).
Rileggendo l'articolo e ripensando all'opera di Asano, mi è venuta in mente un'altra meccanica usata dall'autore in modo strategico nel manga: l'attesa. Tutto l'articolo l'ho strutturato intorno al concetto di impotenza, che fa rima con quello di attesa in effetti. L'impotenza del protagonista viene simulata nel lettore in modo molto intelligente: innescando il desiderio di rivedere Aiko. Asano crea il senso di un'attesa spasmodica e ossessiva non solo nella paralisi idealista di Punpun, ma anche nel lettore, che partecipa al sogno del protagonista, esaltandone il romanticismo. Dalle premesse poste, Asano avrebbe potuto costruire un finale da lieto fine di film Americano, un teen drama in cui l'attesa ripaga la fatica ed è il segno dell'amore eterno e inscalfibile. Trovo incredibile che Asano riesce a farti rimpiangere il desiderio dell'attesa di un personaggio così positivo e puro (all'inizio della storia) come Aiko. Un altro fattore determinate a smentire il sistema di aspettative e ricompense di cui si intesse l'accordo tra testo e lettore.
Un altro modo che Asano usa per enfatizzare la chiusura di Punpun è quando lo disegna come un triangolo