La Grande Bellezza
Mi sono sempre chiesto perché i film di Hayao Miyazaki fossero così profondi per un adulto anche se nella maggior parte dei casi parlano dell’infanzia o dell'adolescenza o hanno protagonisti di giovane età. La risposta è che per fare un film sull’infanzia non puoi essere infantile. Devi essere un adulto e pensare come un adulto, ma fare quell’acrobazia immersiva per immedesimarti nella prospettiva di un bambino. Da questa sedimentazione di una sensibilità adulta nello sforzo necessario ad adottare una prospettiva infantile, deriva la stratificazione di significato dei film di Miyazaki, che riescono a portare con loro allo stesso tempo la meraviglia infantile per la bellezza e il disgusto per la sua distruzione.
Questo permette ai film di essere patetici senza essere canzonatori e moralistici, di essere appassionati senza essere didascalici e di essere profondi senza essere inutilmente intellettualistici. Sono delle storie. E le viviamo prima di tutto come tali. Che poi abbiano un messaggio, è secondario, e anzi esso passa tanto più dettagliatamente e sottilmente quanto più ci dimentichiamo che quel messaggio esiste. Un’opera fallisce quando fallisce nel far dimenticare allo spettatore che c’è un messaggio. Perché in tal caso lo spettatore si sente ammaestrato, e nel modo più odioso di tutti: mentre sta vivendo una storia. Se voglio imparare o essere convinto di una tesi, leggo un saggio. L’esigenza di una storia è quella di essere prima di tutto bella. Poi potrà veicolare tutti i suoi messaggi, ma senza essere bella non avrà mai la “credibilità” per farlo.
Quando questo succede, si respira l’aria della tesi, della didascalia e del moralismo ammonitore. Non c’è quella tregua della parzialità e dell’onnipresente giudizio che ci è concessa solo nella narrativa. Lolita è un capolavoro esattamente per questo: perché la strategia narrativa usata da Nabokov tende a farci dimenticare che la storia sia narrata da un essere umano che inevitabilmente proietta dei giudizi, ma crea l’effetto illusorio dell’avalutatività, e fa anzi di questa avalutatività il principio della sua poetica, innestandolo al cuore del romanzo narrativamente e metanarrativamente, essendo Lolita un libro su degli atti orribili, sublimati nella perfezione del loro racconto.1
Mishima: a life in four chapters
Mishima: a life in four chapters, è un film di Paul Schrader, del 1985. Racconta la storia di Mishima, uno scrittore giapponese del XX secolo, ossessionato dalla bellezza dell’arte, a cui non basta più una bellezza sublimata nella letteratura e che inizia a cercare la perfezione dell’azione dopo aver padroneggiato quella della parola. Il film è raccontato con una struttura unica, alternando pezzi del presente in cui Mishima sta per assaltare con quattro uomini fedeli il Ministero della Giustizia, pezzi della vita passata di Mishima e pezzi delle opere che ha scritto. In ognuna di queste tre sezioni, si esplora il tema della distruzione della bellezza. Nel film di Schrader la ragione da cui deriva il dramma della distruzione della bellezza non è dato per scontato e avvolto nell’alone mistico che conferisce pathos superficiale all’artista tormentato. La bellezza viene distrutta perché si percepisce di non poterne essere all’altezza.
In Golden Pavilion la bellezza è simboleggiata dal padiglione che viene distrutto dal ragazzo.
In Kyoko’s House la bellezza è il corpo stesso del ragazzo che viene distrutto dalla sua amante sadica.
In Runaway Horses la bellezza è rappresentata dalla purezza dell’ideale del gruppo di nazionalisti, che viene distrutto dalla realtà e infine dal seppuku, il suicidio rituale giapponese.
Il motivo di interesse e la stratificazione di significati di Mishima è raggiunta inoltre perché la distruzione della bellezza è attivamente perpetrata dai personaggi e non cade dal cielo. Al contrario di altri film (come Babylon o La Grande Bellezza, affini per tema, ma radicalmente diversi per esecuzione), in cui i personaggi non sono responsabili attivi della decadenza ma solo passivi fruitori, spettatori malinconici di un passato a cui fingono di appartenere. L’intenzionalità della distruzione della bellezza in Mishima è quello che rende il film interessante a livello filosofico e non la trita angoscia romantica del poeta afflitto. Una angoscia evitata anche da Miyazaki, dove i personaggi non sono mai arrendevoli dissoluti che si crogiolano nell’estetizzazione della bruttezza in cui si trovano loro malgrado, ma risoluti personaggi che cercano di crescere.
Un’altra opera dove il tema della decadenza della bellezza è esplorato in modo interessante sono le opere dell’altro Miyazaki, Hidetaka. Perché anche le opere di Miyazaki funzionano e sono interessanti nell’esporre questo tema? Perché il dramma è anche lì esposto in modo silenzioso, senza lamentale, ma dando per assodata la sua necessità, e quindi non soffermandosi su di essa. Questo non soffermarsi su di essa, particolarmente facile e felice nei videogiochi dove siamo letteralmente gettati in un mondo che si vuole “oggettivo” e non scenografico, è ciò che crea l’effetto drammatico di un evento. Come ha ricordato Andrea Tornese nel suo ultimo video su Better Call Saul, nella narrazione l’autore deve dare l’equazione. Sta allo spettatore trovare la soluzione. L’autore ti dà 2+2. Tu ci metti il 4. Questo crea interesse e rende l’opera pulsante di vita, non una morta didascalia. Non ci interessa delle tesi degli autori. Ci interessano le loro storie.
Conclusione
Quindi? Come si mette in scena la distruzione della bellezza? Non riproducendo la distruzione a livello stilistico, come fa Chazelle in Babylon con un film di eccessi nel montaggio, nella messa in scena e nella recitazione, nella moltiplicazione delle trame, perché questo rende impossibile far maturare nello spettatore il senso dell’attesa e dell’interesse per una bellezza su cui una distruzione può risultare drammatica. Non si trasmette il sentimento elegiaco e malinconico della distruzione con il chiasso ma con il silenzio. Con la camera che si allontana dolcemente dalla scena e inquadra una distruzione muta, come in Mishima nella scena in cui viene mostrato il corpo livido e tagliato del ragazzo di Kyoko’s House, con un paesaggio distrutto che non chiede di essere guardato e commiserato come nei videogiochi di Miyazaki. Il disinteresse, il 2+2, il senso di necessità di cui parlava Aristotele nella Poetica. Un senso di necessità che per il fatto stesso di essere necessario, destinato, non sente l’esigenza di spiegarsi, vanitosamente (come invece fa Jep Gambardella in modo adolescenziale e lezioso). Non deve guadagnarsi i favori del palcoscenico, perché ne gode e non vorrebbe.
La distruzione della vera bellezza non è lamento, è silenzio. E questo la rende davvero drammatica, perché la distruzione non risparmia niente che possa rivendicare un riscatto e si consuma nel disinteresse.
“Fires are known to fade in quiet.”
Lo dice lo stesso Nabokov nella postfazione a Lolita nell’edizione Adelphi, che consiglio di leggere anche se non avete letto il romanzo, essendo l’equivalente nabokoviano delle postille di Eco al Nome della Rosa.